Archive for giugno 30th, 2009

30 giugno 2009

Vizi e virtù tra privato e scena pubblica

di Bia Sarasini da: Donnealtri del 25 giugno scorso

Bisognerebbe amare la verità. Forse allora si uscirebbe dall’impasto di disgusto, voyeurismo, impotenza a cui ci consegnano le vicende del nostro Presidente del Consiglio da quando sua moglie Miriam Bartolini in arte Veronica Lario con generosità ha deciso che le sue private vicende di moglie umiliata erano una vicenda pubblica, riguardavano l’intero paese.Bisognerebbe dirsi con franchezza quello che ci si confida nei salotti come nelle palestre e nelle beauty farm, che con “una che per trent’anni è stata la moglie di quello lì” non siamo in debito di nulla, tantomeno dello svelamento della scena impudica nella quale siamo immersi da tanto di quel tempo da non saperla neanche più vedere.

Peccato che questo obnubilamento iniziale, questo rigurgito misogino maschile quanto femminile verso una “che non ha gusto, non ha classe, non sappiamo chi sia, in fondo una che mette in piazza guai di famiglia” (espressioni che ricavo da una gran quantità di discussioni di questo mese) impedisca di trovare il bandolo di questa vicenda di cui, come cittadini e cittadine di questo paese, siamo forzatamente coinvolti.Così rimane in tutto il suo splendore solo l’altro polo del problema, il presidente puttaniere. «Quello che io preferisco» ha detto lui medesimo, Silvio papi, – era una battuta, naturalmente – come ricostruiva ieri Gianantonio Stella sul Corriere della Sera. E cosa si può fare, con un puttaniere? Innalzare l’alto richiamo del rigore morale? Invocare i valori della famiglia? Ma da parte di chi? La sinistra? I politici della sinistra?Forse solo i cattolici più autentici potrebbero trovare parole adatte per indicare le vie della virtù. Ma non solo vescovi e Vaticano sono reticenti. Di cattolici puttanieri, si sa, sono pieni le strade e i bordelli. Perché il problema del puttaniere è questo, che è un uomo comune. Così comune che il vizio di pagare le donne in Italia è condiviso da nove milioni di uomini. Forse la differenza con il presidente è solo nei “quantitativi”, secondo l’indimenticabile espressione di Niccolò Ghedini, che dice bene quello che è implicito in queste imbarcate di ragazze a venti alla volta. La quantità. Un elemento che sgomenta e aggiunge opacità a opacità, occulta la verità, sgradevole. Per esempio che avere liberato le pratiche sessuali, avere abolito la differenza tra donne perbene e donne permale, come insegnava Roberta Tatafiore, ha molte conseguenze, ma non ha reso meno vantaggioso e comodo per gli uomini comprarne i corpi. Ci sarebbe il problema della conquista, come dice lui stesso, Silvio B. rispondendo al direttore di “Chi” Alfonso Signorini che gli chiede se ha mai pagato una donna: «Naturalmente no. Non ho mai capito che soddisfazione ci sia se 
non c’è il piacere della conquista». Ma il denaro non è il migliore degli strumenti di conquista, quello che tacita ogni resistenza? E perfino Papi non potrebbe rivelarsi così fragile da credere alle sua stessa messa in scena della gentilezza, dei regali, del fascino dello smagliante sorriso di uomo di mondo?Quello che più sgomenta, nel guardare Silvio Berlusconi, è vedere il potere al lavoro. Vedere che non si basta mai, c’è sempre qualche altro territorio da annettersi. Sgomenta anche capire come lo spettacolo puro del potere nella sua intimità, senza filtro, ottunde e in un certo senso corrompe anche chi dal potere è distante. Non per caso i sovrani non avevano intimità, come ricordava qualche giorno fa Barbara Spinelli su “La Stampa”. Perché dello spettacolo del loro corpo esposto si nutriva il corpo simbolico della sovranità, come ha teorizzato Erst Kantorowicz a proposito del doppio corpo del sovrano, e in questo legame teneva avvinti i sudditi. Se il regno di Silvio Berlusconi è quello dell’apparenza, è nello schermo televisivo che tiene legati tutti, anche chi non lo sopporta, non è un caso che le veline più o meno diversamente pagate ne siano le officianti.Se fosse possibile guardare da distante, con la freddezza di un antropologo proveniente da un altro pianeta, sarebbe perfino divertente studiare l’uomo che ha voluto rendere vera l’apparenza su cui ha plasmato gli italiani e le italiane dagli schermi tv fin dagli anni Ottanta, dai tempi di “Drive In.Per questo solo la moglie, la donna che per vederlo come è ha dovuto andare oltre l’amore che la legava a lui, poteva dire la verità sul mago dell’incanto televisivo.Una verità difficile da accogliere, non solo per il presidente puttaniere. Prima di tutto perché l’ha detta una moglie, figura dallo statuto incerto nella modernità. Fastidiosa agli uomini perché porta in luce ciò che il patriarcato relega nell’oscurità. Fastidiosa alle donne, che forse troppo poco hanno pensato a chi è una moglie, nell’epoca della libertà femminile.Eppure il piccolo gesto di umiltà, virtù sempre necessaria per trovare la via della verità, di ascoltare con attenzione la voce di una moglie permette di afferrare l’indispensabile filo politico che porta fuori dal labirinto di immagini, finzioni, specchi che ci intrappola. Ci mostra il presidente quale è, scioglie le menti dei cittadini dalla presa del presidente puttaniere. E mentitore, come tutti i puttanieri, proprio per questo così difficili da smascherare, come sanno le donne che hanno la disgrazia di rimanerne catturate, loro hanno sempre in serbo un sorriso, una promessa tutta per te, faranno i bravi, proprio come Papi, che ora si rimette al lavoro. Ida Dominijanni, che in questo mese ha analizzato con costante lucidità questa vicenda sul Manifesto, a differenza di molte che vedono smarrito nell’impudicizia dominante il senso dell’autonomia femminile, ieri ha scritto che le veline vanno forse considerate come una perversione della post-emancipazione e del post-femminismo, piuttosto che come vittime sacrificali. È un rovesciamento importante. Ritengo che lo smarrimento diffuso tra donne, ma anche uomini, sia un effetto di quel pervertimento delle menti che pure si intende denunciare. Una forma di impotenza generata e coltivata da questo potere pervasivo, che vuole dominare i corpi attraverso l’invasione delle menti, come è successo nella terribile vicenda della legge sul fine vita. Occorre un salto, riconoscere che la politica è qui, nelle forme che prende la vita quotidiana. Comprendere che la flebile opposizione, la sinistra arrivata alla sua fine, non trova una strada, in effetti si smarrisce, perché si ostina a chiamare gossip fondamentali snodi tra potere, strutture sociali, relazioni tra donne e uomini. Ammettere che se non si ha nulla da dire su questo non si può neanche pensare una seria soluzione alla crisi economica, che richiede un ripensamento dei modi di vivere.Insomma, sarebbe il momento della presa di parola e di responsabilità dell’azione politica delle donne. Bisognerebbe crederci.
Bia Sarasini

30 giugno 2009

Ragazze immagine

di Ida Dominijanni dal Manifesto del 23.6.09
Distogliamo lo sguardo da Silvio Berlusconi e spostiamolo sulle giovani donne che hanno raccontato gli incontri a palazzo Graziosi e a Villa Certosa nell’inchiesta di Bari. Tutta questa storia aperta dalla denuncia di Veronica Lario sul «divertimento dell’imperatore» non ha niente di privato ed è tutta politica, stiamo sostenendo da più di un mese, perché porta alla luce un ganglio cruciale del sistema di potere e di consenso di Berlusconi e del berlusconismo. Ma sia il potere sia il consenso sono fatti relazionali: si fanno in due, chi dispone e chi obbedisce, chi propone e chi acconsente, sia pure in posizione dispari tra loro.

Dunque c’è il sistema di potere del premier imperniato su una certa politica del sesso e dei rapporti fra i sessi, e ci sono queste giovani donne che vi partecipano e ne consentono il funzionamento, anzi lo hanno consentito fino a un certo punto per poi disvelarlo. Ed è chiaro che, se lo scandalo investe prima di tutto il premier, l’interesse dovrebbe volgersi parimenti a loro, per quello che dicono e che non dicono della società a cui appartengono e dell’immaginario, dei sogni e dei progetti, dell’etica e dell’estetica di cui sono portatrici. E che, salvo liquidare difensivamente escort e ragazze-immagine come eccezioni rispetto alla norma e alla normalità femminile, ci interrogano e ci interpellano: quella società, quell’immaginario, quei sogni e quei progetti, quell’etica e quell’estetica dicono qualcosa a noi tutte.
Leggendo e rileggendo dichiarazioni e interviste di Patrizia D’Addario, Lucia Rossini e Barbara Montereale, e soprattutto guardando e riguardando l’intervista filmata a quest’ultima sul sito di Repubblica, dove il viso e il corpo dicono più della parola scritta, cinque cose impressionano soprattutto. La prima è la padronanza con cui si catalogano e si contrattano mansioni, prestazioni e compensi: tanto per questo, il doppio per quello, «non lavoro per la gloria, se vado a una cena ci vado per avere dei soldi», fare la ragazza-immagine è diverso che fare la escort ma anche per una escort «quello è il suo lavoro, ognuno ha il suo lavoro». Ora, è dagli anni 80 che il movimento per i diritti delle prostitute rivendica – senza convincermi, aggiungo – che fare sesso a pagamento, ovvero vendere il proprio corpo, è un lavoro come un altro, da negoziare come si fa con qualunque lavoro. Ma come siamo arrivati a rendere contabile e negoziabile qualsiasi prestazione del corpo, un sorriso, una presenza a cena, un ballo a una festa, un’impronta che fa immagine? Mansioni come altre, sembra di sentir parlare gli operai che negli anni 70 ti spiegavano la catena di montaggio. Quale cambiamento culturale ha reso il corpo, per queste donne, simile a una macchina, e alienato come una macchina?
La seconda cosa è l’ossessione dell’immagine: non è nel regno delle cose ma in quello della rappresentazione che la vita si svolge. Le ragazze arrivano a palazzo Grazioli, cenano e per prima cosa vanno in bagno a fotografarsi, registe di se stesse, e a immortalare l’evento. L’emozione si deposita in quella foto, non riguarda tanto l’aver varcato la soglia del palazzo del potere (anche se dell’evento «straordinario» si dà notizia all’una di notte per telefono alla mamma che a sua volta tace e acconsente), quanto il registrare di averlo fatto e il poterlo mostrare ad altri. Qui il cambiamento culturale si chiama ovviamente televisione, fine del confine fra realtà e rappresentazione eccetera eccetera. Ma colpisce ugualmente – terza cosa -, a fronte di questo peso dell’immagine, la derubricazione del potere politico in sé e per sé. Che «Silvio» (per Barbara) o «Papi» (per le altre ospiti ancora senza volto) sia casualmente il presidente del consiglio sembra essere tutto sommato un fatto relativo, e certamente non comporta alcun particolare cambio di registro o di galateo. Né alcun sospetto o alcuna cautela: quarta cosa, impressiona l’affidamento cieco all’uomo potente, come se il potere (maschile) avesse d’incanto perso ogni opacità e fosse diventato trasparente, credibile, anch’esso negoziabile (io resto a dormire con te, tu mi aiuti a fare il mio residence sulla costa). Certo aiuta, in questo, l’acclarata «affettuosità» dell’ospite, che tutte conquista, come se – quinta cosa che colpisce – ciascuna stentasse assai a trovarla altrove, e segnatamente in altri uomini: del resto, ci informa Barbara, lei fa la ragazza immagine solo perché non può fare quello che vorrebbe, cioè «la moglie e la madre». E perché è questo che passa il convento, cioè il mercato del lavoro. Ma sul suo viso non passa mai l’ombra del risentimento, né del vittimismo. A conferma che tutta questa storia non si sta giocando nel registro di una rinnovata oppressione patriarcale, ma in quello di una perversa forma di emancipazione femminile, postpatriarcale e postfemminista. Che è forse ciò che la rende così complessa da leggere, in Italia e all’estero.

30 giugno 2009

Vero o Falso? Le rilevazioni Istat secondo Tremonti

dalla newletter del 30 giugno 09 de: lavoce.info

Seguendo le definizioni ispirate dall’International Labour Office (Ilo) e recepite dai regolamenti comunitari, la rilevazione sulle forze di lavoro identifica come disoccupati le persone di almeno 15 anni senza lavoro, in cerca di un impiego, disponibili a lavorare e che hanno compiuto almeno un’azione attiva di ricerca nei trenta giorni che precedono l’intervista. È sufficiente non rispettare anche uno solo di questi requisiti per essere classificato tra gli inattivi.L’indagine sulle forze lavoro viene condotta su 280.000 famiglie per un totale di circa 680.000 individui, una rilevazione “ ampia e affidabile con un tasso di risposta tra i più elevati d’Europa: pari all’88 per cento”Per saperne di più sul campionamento e le tecniche di indagine.
A cura di Davide Baldi e Ludovico Poggi